Archivio | 13 ottobre 2012

Amour di Michael Haneke

Sin dalle origini l’amore, in ogni sua forma, è stato uno dei temi prediletti dalla settima arte. Indimenticabili le languide occhiate di Lyda Borelli, i commoventi sospiri di Rossella O’Hara e la prorompente sensualità della Saraghina di 8 ½. Tuttavia è sempre stato l’innamoramento, tuttalpiù il consolidarsi di un rapporto, ad interessare principalmente i cineasti dal 1895 a questa parte; non sono molti coloro che hanno deciso consapevolmente di mettere da parte le farfalle nello stomaco, per andare oltre, raggiungendo la vecchiaia, scavando nella sofferenza, toccando temi violenti e controversi. È da qui che parte Michael Haneke, che col suo Amour, vincitore della palma d’oro alla 65esima edizione del Festival di Cannes, indaga le miserie e i dolori dell’amore, con l’occhio umano e al contempo impietoso che lo contraddistingue.

Due anziani maestri di pianoforte in pensione, Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), dopo una vita passata insieme, si ritrovano a dover affrontare una delle prove più difficili che la vita possa offrire: la malattia e la conseguente disabilità della donna, che porteranno Georges a dover fare i conti, completamente solo, con scelte dolorose e inevitabili.

L’ermetismo di Haneke, che si manifesta sin dal titolo, un semplicissimo Amour, si propaga per tutta la durata della pellicola, ambientata in claustrofobici e sterili interni (location predilette dal regista, teatri di violenza inaudita già incontrati in Funny Games e Il nastro bianco), grazie alle superbe interpretazioni di due dei più grandi attori francesi contemporanei, Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, che conducono le danze accompagnando magistralmente una sobria, ma al contempo spietata regia tipicamente hanekiana, sempre alla ricerca della violenza, anche nell’amore. Lo spettatore viene trascinato in un teatro della miseria umana, obbligato suo malgrado ad assistere alla decadenza fisica e mentale di Anne, impotente, violentemente costretto a porsi nei panni di Georges, e a trovarsi nella difficile posizione di decidere della vita di un’altra persona. Caratteristica della filmografia di Haneke è proprio la crudele capacità di portare lo spettatore ad immedesimarsi tragicamente nei suoi personaggi, soffrendo delle loro stesse rovine (la consapevolezza della malattia di Anne e l’ineluttabilità della morte, in primis), maturando inevitabilmente le stesse conclusioni dei suoi protagonisti. Nonostante su carta la pellicola possa sembrare dedicata al tema dell’eutanasia il regista riesce a svicolare, impedendo al fruitore di porsi domande di ordine morale, lasciandolo libero di godere, seppur nella sofferenza, di una sublime storia di amore e morte, quasi un mirabile dramma da camera degno del miglior Strindberg.

Voto: ★★★★/5

Gli Equilibristi di Ivan De Matteo

Dopo Posti in piedi in paradiso, tragicommedia di Carlo Verdone uscita nelle sale lo scorso marzo, anche Ivano De Matteo dedica il suo Gli equilibristi, presentato alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, a uno dei problemi meno tenuti in considerazione nell’arte cinematografica, ma tra più attuali e allarmanti nell’Italia contemporanea: quello dei padri separati.

Giulio (Valerio Mastrandrea) è un padre e marito amorevole, impiegato al comune e serio lavoratore, ma a causa di una scappatella con una collega e alla conseguente separazione dalla moglie Elena (Barbora Bobulova), si troverà a dover fare i conti con la crisi e la povertà.

Nonostante spesso rischi di sfiorare il patetismo (in particolare nel finale), De Matteo, che fino ad oggi si era dedicato principalmente al cinema documentario e alla recitazione, riesce a trattare talvolta con ironia un tema tanto complicato da portare sul grande schermo, inserendosi perfettamente nella tradizione italiana che, partendo dalla commedia all’italiana, si è sempre premurata di cercare la risata nella sofferenza quotidiana.

Evitando di scadere quindi nel melodrammatico, il regista riesce efficacemente a dare un’immagine reale e al tempo stesso emozionante del dramma che quotidianamente deve vivere la maggior parte dei padri separati. Non è il tema della separazione, ciò di cui il regista vuol raccontare, quanto quello della difficoltà nel mantenere un equilibrio economico: è l’incapacità di Giulio di sopravvivere con uno stipendio che non gli basta nemmeno per pagare un alloggio, il vedersi costretto a negare una stabilità economica ai propri figli e a se stesso, ciò che De Matteo vuole portare in scena e mostrare al pubblico italiano, perché è questa la problematica che condurrà Giulio sempre più nella miseria (economica, ma anche morale).

Purtroppo la grave pecca de Gli equilibristi è l’esile trama sulla quale il regista tenta di costruire qualcosa di nuovo, perdendosi tuttavia troppo spesso nello stereotipo e nel colpo di scena gratuito. Ci pensa però Valerio Mastrandrea a risollevare le sorti di un film che risulterebbe altrimenti ben poco riuscito: con la sua autoironia, il suo cinismo e la sua ‘romanità’, e nonostante talvolta risulti un po’ troppo caricato, è proprio lui che dona alla pellicola freschezza, riuscendo a trasformare momenti che risulterebbero troppo pregnanti o grevi, in spunti di umorismo, ma allo stesso tempo di riflessione.

Voto: ★★☆/5

Fill the Void di Rama Burshtein

Sin da piccoli il cinema ci insegna che il matrimonio è a conti fatti il coronamento di un percorso di due innamorati, a volte ostacolati, molto spesso sfortunati, ma che infine riusciranno a riscattarsi e a vivere per sempre felici e contenti. Poi, crescendo, ci si dedica a filmografie diverse, e si comprende che non esiste solo la felicità, ma anche la separazione, il dolore e, talvolta, la morte. Ma rimangono poche quelle pellicole che, oltre a raccontare una romantica vicenda, insegnano anche che esistono doveri e sofferenza. È questo il caso di Lemale Et Ha’Chalal – Fill the Void, presentato in concorso a Venezia 69, opera prima della regista Rama Burshtein, che ci conduce all’interno delle dinamiche di una famiglia cassidica ortodossa, raramente rappresentate sul grande schermo, alla gioiosa ricerca di un buon marito per la figlia Shira, ma sconvolta successivamente dalla perdita della primogenita.

Shira Mendelman (Hadas Yaron) è la figlia diciottenne del rabbino di una comunità ebrea ortodossa di Tel Aviv e sta per realizzare il sogno di ogni ragazza perbene: sposarsi. Tuttavia, in seguito alla morte di parto della sorella Esther durante la festività di Purin, Shira si trova costretta a decidere se sposare il marito della sorella, Yohai (Yiftach Klein), e fare da madre al nipotino, o seguire la propria volontà.

Rama Burshtein racconta con delicatezza e un tocco di femminilità la tragedia della morte di una sorella, introducendo al tempo stesso il dilemma interiore della dolce Shira, combattuta tra il dovere di sorella minore, pronta a sposare il cognato, e ad occuparsi del nipote rimasto orfano di madre, e il dolore di sentirsi una sostituta, non quasi moglie, ma rimpiazzo. La maestria della regista nella ripresa dei primi piani del morbido viso di Hadas Yaron, e la disperata espressività della stessa protagonista, toccano profondamente lo spettatore, che riesce, nonostante differenze culturali e religiose, ad entrare agevolmente in una mentalità totalmente estranea alla propria, partecipando direttamente alla sofferenza della giovane ragazza. Non ci preoccupiamo delle differenze culturali, ma riusciamo immediatamente a comprendere il perché della confusione e del dolore della ragazza, entusiasta all’idea di sposarsi, già quasi innamorata del suo sconosciuto futuro marito, ma moralmente costretta a dedicarsi al cognato e al nipotino. Cullati da canzoni tradizionali, inquadrature corte e una fotografia eterea e candida che ben sottolinea lo spaesamento della protagonista, la Burshtein ci accompagna silenziosamente alla scoperta di un mondo diverso, nuovo, che però, grazie alla sua bravura, percepiamo come famigliare, rendendoci consapevoli dell’esistenza di diversi tipi di amore, che molto spesso non riusciamo a riconoscere come tali.

Voto: ★★★★/5

Izmena di Kirill Serebrennikov

Due coppie, due tradimenti, due omicidi. Sono questi i numeri dell’ultima fatica del regista russo Kirill Serebrennikov, che porta in concorso a Venezia un’intricata pellicola dedicata all’amore ritratto in una delle sue forme più torbide: la gelosia.

Una giovane dottoressa (Franziska Petri), ossessionata dalla convinzione che il marito la tradisca con la moglie di un paziente, conduce quest’ultimo (Dejan Lilic) in una spirale di gelosia da cui riescono ad uscire solo attraverso il compimento di un unico atroce gesto: l’omicidio.

Nonostante il tema non sia dei più originali, Serebrennikov col suo Izmena riesce a catturare l’attenzione dello spettatore dirigendo magistralmente gli attori protagonisti, dedicando particolare attenzione alla Petri, algida e feroce dottoressa, trasformandola nella seconda metà del film da moglie innamorata (seppur calcolatrice) e quasi succube, a spietata ingannatrice. Il corpo, in particolare quello femminile, è però il vero protagonista: sempre in primo piano, reale, sporco. La sequenza della rasatura in seguito alla (poco) accidentale morte del marito rende perfettamente comprensibile la frustrazione della donna: finalmente libera, ma allo stesso tempo non più giustificata dal suo essere vittima, e quindi, ora, colpevole. Nonostante la bravura degli attori (lei terribile manipolatrice, lui vittima quasi inconsapevole), i punti deboli della pellicola rimangono numerosi: innanzitutto la surrealtà e l’incoerenza di alcuni episodi (come non citare il bacio con la poliziotta in seguito alla confessione), per arrivare infine alla confusione creata dal ribaltamento della storia a metà del film; nonostante il superbo passaggio che porta all’inversione della storia, accompagnata dal cambiamento d’abito della protagonista in mezzo al bosco, a simboleggiare il mutamento di tempo e spazio, lo scambio di storia tra “traditi” e “traditori” rimane poco fluido, scadendo facilmente in una spirale infinita di temi e vicende già viste.

Nonostante le pecche narrative e grazie alla bravura del direttore della fotografia, alla scelta dell’ambientazione, che ci regala una Russia inedita immersa in colori freddi, foglie sospinte dal vento e temporali improvvisi, Izmena rimane un film estremamente godibile, seppur nascosto da una coltre di banalità che spesso impedisce allo spettatore di apprezzarlo appieno.

Voto: ★★★☆/5