Archivio | ottobre 2012

Ted di Seth MacFarlane

Ted è il primo lungometraggio in live action di Seth MacFarlane, il creatore di quel cartone animato (I Griffin) che è riuscito a rimpiazzare (o, perlomeno, affiancare) I simpson nei cuori di molti fan. Un test importante, insomma, in cui MacFarlane doveva vedersela con attori in carne e ossa, un paio di ore di storia e le eventuali critiche per qualcosa di troppo simile a I Griffin.

Promosso? A metà.

Il film narra dell’amicizia tra Ted (doppiato dallo stesso MacFarlane) e John (Mark Wahlberg), bambino solo che desidera che il suo orsetto di peluche prenda vita e sia suo amico. Trent’anni dopo i due sono ancora uniti ma, anche a causa del passato da star, Ted adesso ha una vita molto sregolata (beve, si droga, va a prostitute) e ciò causa problemi nella storia d’amore tra John e Lori (Mila Kunis).

La solita struttura molto sincopata, quasi a gag, di un episodio del suo cartone animato, non poteva essere trasportata in un film di un paio d’ore. La soluzione non è, però, una via di mezzo, ma una struttura molto rigida e prevedibile, già vista in centinaia di altre commedie americane, con le tappe presentazione-sviluppo-crisi-riappacificazione ben visibili nella storia due rapporti principali: John-Ted e John-Lori. Pur essendo un difetto, si trasforma però in un piccolo pregio: il film, in questo modo, evita il rischio di far diventare Ted solamente un lungo episodio de I Griffin (com’era successo invece al film de I Simpson) e si allontana, per quanto riguarda la trama, dalle solite tematiche del cartone animato.

La sceneggiatura, invece, ricorda quella de I Griffin, ma non è certo un difetto. Le battute politicamente molto scorrette, la grande mole di citazioni e il non-sense completamente gratuito sono palesemente il campo dove MacFarlane eccelle e, in questo film, non delude. Nonostante alcune cadute di stile, le gag sono esilaranti e alcune battute fanno letteralmente piangere dal ridere.

Altro punto di forza, il cast. Ottimo Wahlberg e ottima Mila Kunis che segue MacFarlane anche in questo progetto (è lei a doppiare Meg ne I Griffin) e meriterebbe forse più spazio. Fantastico Giovanni Ribisi e molto simpatico il cameo di Ryan Reynolds.

Un film nel complesso godibile e molto divertente, anche se poco originale (tranne, forse, per il soggetto). Consigliato agli over 25 o, comunque, a chi ha una buona cultura cinematografica pop, altrimenti non si capiscono le citazioni e si perde molto.

Una piccola nota a margine merita, a mio parere, la traduzione italiana. Ci lamentiamo sempre di quando è fatta male. È giusto anche elogiarla quando, invece, non sbaglia. Il film l’ho visto prima in inglese ed ero spaventato dal disastro che si sarebbe potuto fare: le molte citazioni e i molti nomi (a noi italiani sconosciuti) che vengono fatti potevano far intervenire i traduttori e rovinare tutto. Invece, questa volta, sono rimasti piuttosto fedeli al testo, senza pensare a raggiungere target di pubblico altrimenti irraggiungibili (vedi sopra). Da quel che ricordo, hanno tagliato solo una citazione del testo di una canzone dei Pink Floyd, ma su quello mi ero già messo l’anima in pace

Voto: ★★★/5

Amour di Michael Haneke

Sin dalle origini l’amore, in ogni sua forma, è stato uno dei temi prediletti dalla settima arte. Indimenticabili le languide occhiate di Lyda Borelli, i commoventi sospiri di Rossella O’Hara e la prorompente sensualità della Saraghina di 8 ½. Tuttavia è sempre stato l’innamoramento, tuttalpiù il consolidarsi di un rapporto, ad interessare principalmente i cineasti dal 1895 a questa parte; non sono molti coloro che hanno deciso consapevolmente di mettere da parte le farfalle nello stomaco, per andare oltre, raggiungendo la vecchiaia, scavando nella sofferenza, toccando temi violenti e controversi. È da qui che parte Michael Haneke, che col suo Amour, vincitore della palma d’oro alla 65esima edizione del Festival di Cannes, indaga le miserie e i dolori dell’amore, con l’occhio umano e al contempo impietoso che lo contraddistingue.

Due anziani maestri di pianoforte in pensione, Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), dopo una vita passata insieme, si ritrovano a dover affrontare una delle prove più difficili che la vita possa offrire: la malattia e la conseguente disabilità della donna, che porteranno Georges a dover fare i conti, completamente solo, con scelte dolorose e inevitabili.

L’ermetismo di Haneke, che si manifesta sin dal titolo, un semplicissimo Amour, si propaga per tutta la durata della pellicola, ambientata in claustrofobici e sterili interni (location predilette dal regista, teatri di violenza inaudita già incontrati in Funny Games e Il nastro bianco), grazie alle superbe interpretazioni di due dei più grandi attori francesi contemporanei, Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, che conducono le danze accompagnando magistralmente una sobria, ma al contempo spietata regia tipicamente hanekiana, sempre alla ricerca della violenza, anche nell’amore. Lo spettatore viene trascinato in un teatro della miseria umana, obbligato suo malgrado ad assistere alla decadenza fisica e mentale di Anne, impotente, violentemente costretto a porsi nei panni di Georges, e a trovarsi nella difficile posizione di decidere della vita di un’altra persona. Caratteristica della filmografia di Haneke è proprio la crudele capacità di portare lo spettatore ad immedesimarsi tragicamente nei suoi personaggi, soffrendo delle loro stesse rovine (la consapevolezza della malattia di Anne e l’ineluttabilità della morte, in primis), maturando inevitabilmente le stesse conclusioni dei suoi protagonisti. Nonostante su carta la pellicola possa sembrare dedicata al tema dell’eutanasia il regista riesce a svicolare, impedendo al fruitore di porsi domande di ordine morale, lasciandolo libero di godere, seppur nella sofferenza, di una sublime storia di amore e morte, quasi un mirabile dramma da camera degno del miglior Strindberg.

Voto: ★★★★/5

Gli Equilibristi di Ivan De Matteo

Dopo Posti in piedi in paradiso, tragicommedia di Carlo Verdone uscita nelle sale lo scorso marzo, anche Ivano De Matteo dedica il suo Gli equilibristi, presentato alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, a uno dei problemi meno tenuti in considerazione nell’arte cinematografica, ma tra più attuali e allarmanti nell’Italia contemporanea: quello dei padri separati.

Giulio (Valerio Mastrandrea) è un padre e marito amorevole, impiegato al comune e serio lavoratore, ma a causa di una scappatella con una collega e alla conseguente separazione dalla moglie Elena (Barbora Bobulova), si troverà a dover fare i conti con la crisi e la povertà.

Nonostante spesso rischi di sfiorare il patetismo (in particolare nel finale), De Matteo, che fino ad oggi si era dedicato principalmente al cinema documentario e alla recitazione, riesce a trattare talvolta con ironia un tema tanto complicato da portare sul grande schermo, inserendosi perfettamente nella tradizione italiana che, partendo dalla commedia all’italiana, si è sempre premurata di cercare la risata nella sofferenza quotidiana.

Evitando di scadere quindi nel melodrammatico, il regista riesce efficacemente a dare un’immagine reale e al tempo stesso emozionante del dramma che quotidianamente deve vivere la maggior parte dei padri separati. Non è il tema della separazione, ciò di cui il regista vuol raccontare, quanto quello della difficoltà nel mantenere un equilibrio economico: è l’incapacità di Giulio di sopravvivere con uno stipendio che non gli basta nemmeno per pagare un alloggio, il vedersi costretto a negare una stabilità economica ai propri figli e a se stesso, ciò che De Matteo vuole portare in scena e mostrare al pubblico italiano, perché è questa la problematica che condurrà Giulio sempre più nella miseria (economica, ma anche morale).

Purtroppo la grave pecca de Gli equilibristi è l’esile trama sulla quale il regista tenta di costruire qualcosa di nuovo, perdendosi tuttavia troppo spesso nello stereotipo e nel colpo di scena gratuito. Ci pensa però Valerio Mastrandrea a risollevare le sorti di un film che risulterebbe altrimenti ben poco riuscito: con la sua autoironia, il suo cinismo e la sua ‘romanità’, e nonostante talvolta risulti un po’ troppo caricato, è proprio lui che dona alla pellicola freschezza, riuscendo a trasformare momenti che risulterebbero troppo pregnanti o grevi, in spunti di umorismo, ma allo stesso tempo di riflessione.

Voto: ★★☆/5

Fill the Void di Rama Burshtein

Sin da piccoli il cinema ci insegna che il matrimonio è a conti fatti il coronamento di un percorso di due innamorati, a volte ostacolati, molto spesso sfortunati, ma che infine riusciranno a riscattarsi e a vivere per sempre felici e contenti. Poi, crescendo, ci si dedica a filmografie diverse, e si comprende che non esiste solo la felicità, ma anche la separazione, il dolore e, talvolta, la morte. Ma rimangono poche quelle pellicole che, oltre a raccontare una romantica vicenda, insegnano anche che esistono doveri e sofferenza. È questo il caso di Lemale Et Ha’Chalal – Fill the Void, presentato in concorso a Venezia 69, opera prima della regista Rama Burshtein, che ci conduce all’interno delle dinamiche di una famiglia cassidica ortodossa, raramente rappresentate sul grande schermo, alla gioiosa ricerca di un buon marito per la figlia Shira, ma sconvolta successivamente dalla perdita della primogenita.

Shira Mendelman (Hadas Yaron) è la figlia diciottenne del rabbino di una comunità ebrea ortodossa di Tel Aviv e sta per realizzare il sogno di ogni ragazza perbene: sposarsi. Tuttavia, in seguito alla morte di parto della sorella Esther durante la festività di Purin, Shira si trova costretta a decidere se sposare il marito della sorella, Yohai (Yiftach Klein), e fare da madre al nipotino, o seguire la propria volontà.

Rama Burshtein racconta con delicatezza e un tocco di femminilità la tragedia della morte di una sorella, introducendo al tempo stesso il dilemma interiore della dolce Shira, combattuta tra il dovere di sorella minore, pronta a sposare il cognato, e ad occuparsi del nipote rimasto orfano di madre, e il dolore di sentirsi una sostituta, non quasi moglie, ma rimpiazzo. La maestria della regista nella ripresa dei primi piani del morbido viso di Hadas Yaron, e la disperata espressività della stessa protagonista, toccano profondamente lo spettatore, che riesce, nonostante differenze culturali e religiose, ad entrare agevolmente in una mentalità totalmente estranea alla propria, partecipando direttamente alla sofferenza della giovane ragazza. Non ci preoccupiamo delle differenze culturali, ma riusciamo immediatamente a comprendere il perché della confusione e del dolore della ragazza, entusiasta all’idea di sposarsi, già quasi innamorata del suo sconosciuto futuro marito, ma moralmente costretta a dedicarsi al cognato e al nipotino. Cullati da canzoni tradizionali, inquadrature corte e una fotografia eterea e candida che ben sottolinea lo spaesamento della protagonista, la Burshtein ci accompagna silenziosamente alla scoperta di un mondo diverso, nuovo, che però, grazie alla sua bravura, percepiamo come famigliare, rendendoci consapevoli dell’esistenza di diversi tipi di amore, che molto spesso non riusciamo a riconoscere come tali.

Voto: ★★★★/5

Izmena di Kirill Serebrennikov

Due coppie, due tradimenti, due omicidi. Sono questi i numeri dell’ultima fatica del regista russo Kirill Serebrennikov, che porta in concorso a Venezia un’intricata pellicola dedicata all’amore ritratto in una delle sue forme più torbide: la gelosia.

Una giovane dottoressa (Franziska Petri), ossessionata dalla convinzione che il marito la tradisca con la moglie di un paziente, conduce quest’ultimo (Dejan Lilic) in una spirale di gelosia da cui riescono ad uscire solo attraverso il compimento di un unico atroce gesto: l’omicidio.

Nonostante il tema non sia dei più originali, Serebrennikov col suo Izmena riesce a catturare l’attenzione dello spettatore dirigendo magistralmente gli attori protagonisti, dedicando particolare attenzione alla Petri, algida e feroce dottoressa, trasformandola nella seconda metà del film da moglie innamorata (seppur calcolatrice) e quasi succube, a spietata ingannatrice. Il corpo, in particolare quello femminile, è però il vero protagonista: sempre in primo piano, reale, sporco. La sequenza della rasatura in seguito alla (poco) accidentale morte del marito rende perfettamente comprensibile la frustrazione della donna: finalmente libera, ma allo stesso tempo non più giustificata dal suo essere vittima, e quindi, ora, colpevole. Nonostante la bravura degli attori (lei terribile manipolatrice, lui vittima quasi inconsapevole), i punti deboli della pellicola rimangono numerosi: innanzitutto la surrealtà e l’incoerenza di alcuni episodi (come non citare il bacio con la poliziotta in seguito alla confessione), per arrivare infine alla confusione creata dal ribaltamento della storia a metà del film; nonostante il superbo passaggio che porta all’inversione della storia, accompagnata dal cambiamento d’abito della protagonista in mezzo al bosco, a simboleggiare il mutamento di tempo e spazio, lo scambio di storia tra “traditi” e “traditori” rimane poco fluido, scadendo facilmente in una spirale infinita di temi e vicende già viste.

Nonostante le pecche narrative e grazie alla bravura del direttore della fotografia, alla scelta dell’ambientazione, che ci regala una Russia inedita immersa in colori freddi, foglie sospinte dal vento e temporali improvvisi, Izmena rimane un film estremamente godibile, seppur nascosto da una coltre di banalità che spesso impedisce allo spettatore di apprezzarlo appieno.

Voto: ★★★☆/5